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Perché Trump spinge per Gerusalemme capitale dello Stato di Israele

Pubblicato il 02/12/2017 - Formiche

Ogni governo nel mondo cerca, nei limiti del possibile, di mantenere le promesse elettorali. Così intende fare quello di Donald Trump in merito ad una questione controversa che promette di fare scalpore negli ambienti diplomatici internazionali e di infiammare il Medio Oriente. Secondo indiscrezioni di stampa, basate su fonti interne all’amministrazione Trump e sulle voci di esponenti di governo di paesi alleati degli Stati Uniti, il presidente Usa si accinge ad annunciare che l’America riconosce Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele e intende quindi trasferire lì la propria ambasciata, spostandola dall’attuale sede di Tel Aviv.

È una mossa, quella considerata da Trump, che ricalcherebbe fedelmente quanto detto in campagna elettorale. E rispecchierebbe la piena sintonia tra il suo governo e quello di Benjamin Netanyahu, primo ministro dello Stato ebraico. Trasferire l’ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme è un passo che non solo cementerebbe la storica alleanza tra Stati Uniti ed Israele, ma consentirebbe a The Donald di cancellare i passi falsi del suo predecessore Barack Obama, sotto la cui presidenza le relazioni tra i due paesi hanno raggiunto il minimo storico. Per rilanciare i rapporti, Trump ritiene evidentemente che non ci sia nulla di meglio del segnalare al mondo che l’America, unico paese al mondo, riconosce Gerusalemme come capitale di Israele e da lì condurrà i suoi rapporti diplomatici con l’alleato.

A confermare l’intenzione di Trump ci sono le parole pronunciate martedì a New York dal suo vice Mike Pence, che ha confermato come il presidente stia “attivamente considerando quando e come” mantenere la promessa fatta in campagna elettorale. Pence, peraltro, è in procinto di partire per il Medio Oriente, con tappe in Egitto e in Israele, dove avrà probabilmente modo di saggiare le conseguenze della decisione del suo capo.

Una decisione che potrebbe essere gravida di conseguenze in una regione che, con l’eccezione di Egitto e Giordania, continua a non riconoscere il diritto dello Stato ebraico ad esistere e non ha formali relazioni diplomatiche con esso. E che sarebbe interpretata, da parte di una comunità internazionale che non ha mancato nel tempo di esprimere simpatie nei confronti della causa palestinese, come un’inutile provocazione. Che innescherebbe reazioni a catena in un’opinione pubblica islamica da sempre sensibile nei riguardi della sofferenza dei palestinesi.

Le rivelazioni di queste ore appaiono in effetti come un ballon d’essai, buone per esplorare gli atteggiamenti degli altri paesi e delle rispettive opinioni pubbliche. Se Trump è uomo strutturalmente incapace di compromessi, e dunque in grado di innescare azioni spericolate, la sua squadra di governo sembra essere stata messa in piedi per studiare le necessarie contromosse e per operare i bilanciamenti indispensabili alle manovre imprudenti e umorali di un leader incontrollabile. Non è un caso che le voci che circolano siano circostanziate. Le fonti sentite dalla Cnn precisano che Trump non ha ancora deciso se riconoscere come capitale di Israele l’intera Gerusalemme o solo Gerusalemme ovest. Non è affatto un dettaglio, perché se gli ambienti vicini a Netanyahu amano ritenere Gerusalemme la capitale “unica e indivisibile” dello Stato di Israele, lo statuto della città è ancora sospeso e ogni ipotesi di negoziato tra palestinesi ed israeliani, in tutte le salse con cui è stato cucinato dai tempi degli accordi di Oslo, prevede la condivisione della sovranità sulla città, con Gerusalemme ovest capitale dello Stato ebraico e Gerusalemme est del futuro Stato palestinese. L’annuncio di Trump, dunque, non potrà che essere calibrato in funzione di quella trattativa israelo-palestinese che il suo governo ha più volte promesso di rilanciare.

Sempre secondo le fonti sentite dalla stampa americana, il piano di Trump non sarebbe privo di condizionalità. L’intenzione è quella di procedere, dopo l’annuncio del presidente, al trasferimento dell’ambasciatore americano David Friedman a Gerusalemme, senza però far seguire un contestuale trasloco dell’ambasciata, che rimarrebbe a Tel Aviv. Inoltre, in un altro dettaglio che rivela come ci si stia muovendo in un campo minato, il messaggio del capo della Casa Bianca comprenderebbe un riferimento all’intenzione americana di riconoscere Gerusalemme est come capitale di un prossimo venturo Stato di Palestina. Stato che scaturirebbe da quello che l’amministrazione Trump ha definito un “accordo definitivo” tra i due contraenti.

Un accordo su cui sta lavorando alacremente il genero di Trump, Jared Kushner. Che insieme all’inviato speciale del presidente, Jason Greenblat, ha tessuto in questi mesi la tela diplomatica necessaria per predisporre il Medio Oriente alla svolta. I dieci mesi di amministrazione Trump hanno segnato un deciso allineamento degli Stati Uniti alle posizioni dei principali paesi sunniti, Arabia Saudita in testa, nel nome della comune ostilità nei confronti dell’Iran. Un’intesa di cui gli Usa ora intendono fare tesoro per rilanciare l’iniziativa di pace israelo-palestinese e passare all’incasso.

Sembra delinearsi, dunque, un “grand bargain” – uno di quegli accordi spettacolari su cui il tycoon ha costruito la sua fama. Il mondo arabo può tornare a contare, dopo gli anni infausti di Obama, su un’alleanza di ferro con la superpotenza a stelle e strisce. In cambio, essi promettono di riconoscere Israele. Che, a sua volta, accetta di negoziare la nascita di uno Stato di Palestina. Una sequenza più facile a dirsi che a farsi, ma che non di meno evidenzia la natura incisiva e spregiudicata della politica estera dell’amministrazione Trump. Che più di ogni altra cosa ama distinguersi da chi l’ha preceduta.

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